Di società tra professionisti (di seguito s.t.p.) si è iniziato a discutere sin dal 1997 quando, con l’articolo 24 della legge n. 266 (cd. prima legge Bersani), fu abrogato il divieto imposto dall’articolo 2 della legge 23 novembre 1939, n. 1815, di costituire società o altri enti, diversi dalle associazioni, con lo scopo di fornire, anche gratuitamente, prestazioni di assistenza o consulenza in materia tecnica, legale, commerciale, amministrativa, contabile o tributaria.
Nell’attesa di un decreto ministeriale mai emanato, la disciplina delle s.t.p. è rimasta avvolta in un limbo per ulteriori nove anni. Un nuovo, decisivo passo verso una più dettagliata regolamentazione è stato compiuto con l’emanazione della legge 4 agosto 2006, n. 248 (cd. seconda legge Bersani), il cui articolo 2, lettera c), ha soppresso “il divieto di fornire all’utenza servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte di società di persone o associazioni tra professionisti”.
Tuttavia, è solo con l’avvento della legge 12 novembre 2011, n. 183, detta legge di stabilità 2012, che all’interno del nostro ordinamento è stata introdotta concretamente la possibilità di istituire, dal 1° gennaio 2012, le s.t.p. nelle forme di società di persone, di capitali e cooperative, anche di tipo multidisciplinare.
Per quel che concerne l’aspetto tributario, data l’assenza di norme sostanziali atte a qualificare il reddito generato dai professionisti aggregati in forma societaria, si discute se la disciplina delle attività economiche di tipo intellettuale debba prevalere su quella degli schemi societari a carattere imprenditoriale. Va ricordato, infatti, che ai sensi sia degli articoli 6, comma 3, e 81, comma 1, del Tuir, il reddito prodotto da qualunque società è considerato reddito d’impresa.
Le norme citate, se riferite alle s.t.p., si pongono però in antitesi con l’articolo 5 del Tuir, ove è precisato che le associazioni senza personalità giuridica costituite fra persone fisiche per l’esercizio in forma associata di arti e professioni producono reddito di lavoro autonomo.
L’Amministrazione finanziaria si è sforzata di colmare l’evidenziata lacuna tramite l’emanazione di due documenti di prassi giungendo, però, a conclusioni tutt’altro che univoche. Infatti, già con la Risoluzione del 28 maggio 2001, n. 118/E, l’Agenzia delle Entrate si era preoccupata di qualificare il reddito conseguito dalle società tra avvocati costituite ai sensi dell’articolo 16 del citato decreto legislativo 2 febbraio 2001, n. 96, alla stregua di reddito di lavoro autonomo.
A complicare le cose, però, è stato il revirement della Direzione Centrale Normativa e Contenzioso operato con la Risoluzione 4 maggio 2006, n. 56/E. Nel documento di prassi citato, l’Amministrazione finanziaria ha qualificato il reddito ritratto dalle società di ingegneria come reddito d’impresa.
Le discrasie evidenziate dovrebbero tuttavia essere risolte con il disegno di legge “semplificazioni” approvato dal Consiglio dei Ministri nella seduta n. 10 del 19 giugno 2013 e presentato al Senato il 23 luglio scorso, il cui articolo 27, comma 4, precisa che alle nuove s.t.p., indipendentemente dalla forma giuridica, si applicheranno, anche ai fini IRAP, il regime fiscale delle associazioni senza personalità giuridica costituite tra persone fisiche per l’esercizio in forma associata di arti e professioni.
Nelle more della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del provvedimento succitato, potrebbe essere utile seguire un approccio sistematico che attribuisca il giusto peso alla capacità dei soci di configurare la struttura societaria come una vera e propria organizzazione di beni e di risorse umane.
Pertanto, occorre osservare la problematica da una prospettiva di assoluta neutralità rispetto alla forma societaria adottata, assumendo quale elemento primario la natura del programma economico perseguito e, solo in via incidentale, le modalità con le quali è attuato. In altri termini, il reddito delle s.t.p. dovrebbe essere considerato reddito di lavoro autonomo salvo non sussistano determinati, specifici elementi che facciano propendere per il reddito di impresa.
Nel linguaggio del Tuir l’espressione “reddito di impresa” equivale a “reddito di impresa commerciale”. Ai sensi dell’articolo 55 del Tuir si considerano redditi d’impresa quelli che derivano dall’esercizio di imprese commerciali. Secondo la normativa tributaria per tale si intende, in primis, l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività indicate nell’articolo 2195 del Codice Civile, attività la cui commercialità prescinde dall’esercizio organizzato in forma d’impresa. Organizzazione necessaria, invece, ai sensi del comma 2 dell’articolo citato, per qualificare come redditi di impresa i redditi derivanti dalla prestazione di servizi non rientranti nel citato articolo 2195.
A tal riguardo, il discrimine tra reddito di impresa e reddito di lavoro autonomo risiede nella presenza, o viceversa nell’assenza, di un’organizzazione in forma d’impresa che governi l’esercizio delle professioni intellettuali: se detta organizzazione c’è, il reddito così prodotto è, ai fini fiscali, reddito di impresa; diversamente, si è in presenza di un reddito da lavoro autonomo.
E’ innegabile che le nuove s.t.p., al di là delle considerazioni puramente di facciata, possono essere strutturate in modo da vantare un’organizzazione nella tipica forma di impresa.
Tuttavia, per provocare il trapasso dalla categoria del lavoro autonomo a quella dell’impresa non è sufficiente un minimo di etero-organizzazione, bensì un elevato livello organizzativo, tale da richiedere al professionista un mutamento di funzioni e di competenze con la conseguente trasformazione, almeno in prevalenza, da prestatore di servizi a soggetto capace di combinare e coordinare i fattori produttivi, sì da spostare il baricentro dell’attività tipica del professionista, ossia la prestazione di servizi, verso l’organizzazione dallo stesso creata e gestita.
Oggi giorno, l’esperienza insegna che le professioni intellettuali sono esercitate in forme sempre più complesse sia in termini di beni strumentali che di impiego di fattori umani.
I titolari degli studi professionali, infatti, tendono a relazionarsi con soggetti esterni al fine di reperire nuovi incarichi e reclutare nuova clientela la cui cura è affidata ai propri collaboratori di fiducia i quali, piuttosto che affiancarvisi, spesso si sostituiscono loro nell’esercizio della professione. Professione, in alcuni casi, livellata verso il basso grazie all’utilizzo di una complessa combinazione di hardware e software che consente un’articolata elaborazione degli input immessi nel sistema. Di tal fatta, al titolare dello studio professionale non resterebbe altro che un compito di supervisione interna, diretto a garantire il regolare andamento dello studio stesso, attività, nel complesso, senza dubbio paragonabile a quella di un imprenditore che cura l’organizzazione della struttura produttiva.
Le considerazioni che precedono, se valgono per i singoli professionisti, a maggior ragione debbono valere per le nuove s.t.p. al cui capitale sociale possono partecipare anche soci non professionisti, i cd. soci di investimento, i quali, pur non esercitando attività intellettuale, ben possono curare l’immagine della società sul mercato, intrattenere rapporti con soggetti terzi e, mediante l’apporto di mezzi finanziari, garantire la disponibilità di beni strumentali di ogni genere e tipo a supporto dell’attività lavorativa: in circostanze simili non dovrebbe essere difficoltoso propendere per il reddito di impresa.
In conclusione, si può affermare che le presunzioni di cui agli articoli 6, comma 3, e 81, comma 1, del Tuir, non sembrano più applicabili ogni qual volta ci si trovi al cospetto di un’attività esercitata mediante un modello societario costituito nelle forme di cui ai capi V, VI, VII del titolo V e al capo I del titolo VI del libro quinto del Codice Civile.
Dette norme, pur se idonee nella maggioranza dei casi a qualificare il reddito ritratto da apparati societari come reddito di impresa, soffrono un’eccezione dinanzi alle nuove s.t.p.. Difatti, una rigida applicazione delle summenzionate regole qualificative, non giustificata da timori di elusione fiscale e/o di abuso delle forme giuridiche contemplate dal nostro ordinamento (leggasi: società di comodo), insieme all’avvenuto cambiamento dei modelli di attività economica, di cui la nuova s.t.p. rappresenta un valido esempio, rendono sicuramente la disciplina dettata dalle succitate norme del Tuir uno strumento sproporzionato rispetto all’effettiva esigenza di tutela dell’interesse erariale.
Ne deriva, quindi, che la qualificazione fiscale del reddito prodotto dalle s.t.p. di cui all’articolo 10 della legge 12 novembre 2011, n. 183, dovrebbe essere effettuata caso per caso, risultando impossibile a priori tracciare una linea di demarcazione tra le due tipologie reddituali.